Con una progressiva apertura verso l’esterno, la Cina è entrata a far parte della World trade organization (WTO) nel dicembre del 2001, in qualità di 143esimo membro. Infatti, la grande scommessa dell’Occidente, in quegli anni, è stata quella di integrare la Cina nei circuiti economici e finanziari globali come garanzia per un’omologazione politica di Pechino. La Cina, in circa venti anni, è diventata la seconda potenza economica mondiale, dimostrando come un sistema autocratico possa ben integrarsi nell’economia liberale, a discapito di anni di teorie economiche e politiche che, invece, affermavano che solo i modelli di democrazia occidentali liberali favorissero la crescita e il benessere collettivo. I due modelli socioeconomici contrapposti – quello cinese e quello occidentale, con capofila gli Stati Uniti – stanno giocando una partita importante sul piano internazionale del soft power, in particolar modo a seguito della pandemia da Covid-19. Uno scontro che si nota soprattutto in Medio Oriente, dopo le manifestazioni di interesse reciproche da parte di Cina e Arabia Saudita sul tema economico ed energetico.
L’interesse di Pechino e Riad di rafforzare le relazioni bilaterali è dovuto principalmente a due motivi. Da un lato, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman (MbS), aveva necessità di completare l’offerta pubblica iniziale di Saudi Aramco – la compagnia energetica nazionale saudita –, avvenuta nel 2016 e che avrebbe consentito alla compagnia di quotarsi nel mercato finanziario per un valore di circa 2 trilioni di dollari (operazione sfumata a seguito del netto rifiuto da parte dell’Occidente); dall’altro lato, vi è la ricerca della Cina di entrare a pieno titolo nel mondo del commercio internazionale con la sua moneta, esclusa fino ad oggi dalle transazioni internazionali. A coniugare le due esigenze è stata, nel 2018, la proposta cinese di offrire a Mohammed Bin Salam l’acquisto dell’intera quota dell’offerta pubblica, ovvero il 5%, da concludersi in uno straight private placement – un accordo privato che avrebbe permesso alle due parti di stipulare reciproci impegni. Questo accordo privato avrebbe permesso a Bin Salman di affermare le proprie capacità politiche nel guidare il proprio paese (messe in dubbio dalla classe senior dei sauditi), di avere il denaro sufficiente (2 trilioni di dollari per l’intera Aramco, previsti inizialmente con l’offerta pubblica) per la quotazione in borsa, garantendo, di rimando, alla Cina una posizione di rilevanza crescente sullo scenario finanziario globale.
Tuttavia, lo straight private placement non ha più avuto luogo per via di alcune clausole all’interno dell’accordo, ma la Saudi Aramco è riuscita ugualmente, nel dicembre 2019, a quotarsi in borsa presso il Saudi stock exchange, la borsa saudita. Il reciproco interesse tra Pechino e Ryadh non è però venuto meno, soprattutto quando i prezzi internazionali del petrolio sono crollati a causa dello scoppio della pandemia da Covid-19 e, ancor di più, nell’attuale fase con i prezzi del petrolio in rialzo. Infatti, il Wall Street Journal ha affermato che l’Arabia Saudita e la Cina avrebbero ripreso le trattative per concludere l’accordo economico ed energetico circa l’acquisto di petrolio direttamente in yuan, la moneta cinese. Ciò permetterebbe al governo di Pechino di poter pagare una parte delle sue importazioni con la valuta nazionale, creando, come ulteriore effetto, quello di spezzare il monopolio del dollaro come valuta di riferimento per il commercio di petrolio.
In effetti, già durante il vertice G20 tenutosi a Londra nell’aprile 2010, Zhou Xiaochuan, governatore della People’s Bank of China dal 2002 al 2018, segnalò l’idea che i cinesi avrebbero desiderato – nonché proposto – che vi fosse una nuova valuta di riserva globale per sostituire il dollaro statunitense. Il progetto di una crescente e rilevante presenza cinese sul piano internazionale era stato già delineato al momento dell’ingresso della Cina nel WTO: nel 2016, lo yuan è stato incluso all’interno degli special drawing rights (diritti speciali di prelievo), aumentando l’uso della valuta di Pechino negli scambi commerciali; nel 2018, in occasione del lancio della Borsa internazionale dell’energia di Shanghai, lo yuan è entrato nella borsa di scambio internazionale di energia, consentendo ai grandi produttori di petrolio e ad altre grandi nazioni commerciali di effettuare transazioni internazionali energetiche in yuan.
Con un nuovo accordo sul metodo di pagamento per l’acquisto di petrolio, denominato petroyuan, si darebbe alla Cina la possibilità di avanzare nel mondo della finanza internazionale attraverso l’accettazione della sua valuta nazionale per l’acquisto di petrolio greggio non solo da parte dell’Arabia Saudita ma anche – in un’ottica di lungo periodo – da parte di tutti i produttori del Medio Oriente. La rinnovata manifestazione di interesse tra la Cina e l’Arabia Saudita è stata suggellata da uno scambio telefonico intercorso tra i due leaders – Bin Salman e Xi Jinping – avvenuto lo scorso marzo per rinnovare gli intenti del 2018. Per tali ragioni il principe saudita ha invitato Xi Jinping a visitare Riad.
I possibili accordi dovrebbero vertere su diversi argomenti: in tema energetico dove, oltre alla vendita di petrolio, vi sarebbero anche collaborazioni per sviluppare progetti nel settore delle rinnovabili; in materia di difesa, per lo sviluppo delle infrastrutture e dell’industria militare dell’Oman e per il trasferimento di know-how in ambito militare.
La natura della possibile intesa tra Riad e Pechino riaccende la tensione tra Cina e Stati Uniti sul piano internazionale del soft power. La presenza cinese nel Golfo Persico ha creato ulteriori frizioni nei rapporti tra Washington e Riad – partner statunitense in Medio Oriente – già in crisi a seguito delle ripetute violazioni saudite dei diritti umani e delle negoziazioni USA con l’Iran per il nucleare. A ciò si aggiunge il conflitto in Yemen – dove gli Stati Uniti spingono per porre fine al conflitto a differenza dei sauditi che, invece, vorrebbero un maggiore presenza di Washington – e il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan che ha determinato maggiore instabilità nella regione. Gli elementi di frizione creerebbero, dunque, le condizioni per permettere ai sauditi di stringere nuove alleanze geopolitiche e geo-economiche.
Su questo ultimo punto si inserisce, per l’appunto, la Cina. Benché vi sia chi sostiene che difficilmente Pechino si sostituirà politicamente a Washington nel Medio Oriente, ad oggi appare più realistica, invece, la prospettiva di un avanzamento cinese sul piano economico nel Golfo. Anche se, da un punto di vista strettamente monetario, il petroyuan non sarebbe una rivoluzione (e ciò lo dimostrano le intenzioni della Russia di vendere in rubli il petrolio e dell’Arabia Saudita di porre la medesima strategia vendendo il petrolio in riyal sauditi), l’accordo tra Cina ed Arabia Saudita, qualora si concludesse, potrebbe determinare un cambiamento nello scenario dell’economia internazionale. Bisogna, tuttavia, chiedersi quali siano gli impatti sullo scenario globale di un tale accordo.
La Cina di Xi Jinping si è prefissata l’obiettivo di non essere più solo la fabbrica del mondo, ovvero un soggetto passivo politicamente, ma di essere, al contrario, un soggetto attivo sul piano internazionale. Rafforzare la leadership politica significa migliorare le proprie capacità di crescita interna e le proprie capacità nel campo dell’innovazione tecnologica da esportare all’estero attraverso opere di investimento di lungo periodo. Primo passo per concretizzare gli obiettivi prefissati da Pechino è avere un peso rilevante nelle transazioni internazionali con la sua moneta – lo yuan – e nei mercati finanziari. Per questo Xi Jinping punta ad un mercato internazionale più aperto e maggiormente integrato, dove temi come dazi e barriere d’ingresso non siano più un tabù e dove il modello cinese possa essere “esportato” anche al di fuori dei confini nazionali.
Da un punto di vista strettamente monetario, il dollaro statunitense costituisce ancora un riferimento per le transazioni commerciali e la quota detenuta nelle riserve valutarie delle banche centrali di tutto il mondo si attesta al 58,81%, benché tale quota si trovi ai minimi storici da circa 25 anni. Inoltre, la Cina, che è tra i più importanti detentori di Titoli di Stato USA, da tempo sta provando a “de-dollarizzare” le proprie riserve di valuta, nel tentativo di acquisire rilevanza sul piano delle riserve monetarie internazionali. Nonostante ciò, nell’ultimo quadrimestre del 2021, le riserve di valuta estera cinese nel mondo non superano il 2,79% e, dunque, non sono sufficienti a garantire il volume delle transazioni commerciali.
Infatti, nonostante già dal 2018 la Cina abbia introdotto contratti petroliferi denominati in valuta locale – al fine di rafforzare la propria moneta nel mondo – e abbia acquistato più del 25% del petrolio esportato dall’Arabia Saudita, la stessa non è stata in grado di mettere in crisi la leadership del dollaro statunitense nel mercato petrolifero. Ne consegue che, nonostante vi sia una maggiore frammentazione valutaria, questa non implica un passo di cambio tra lo yuan e il dollaro nel mercato del petrolio (Brent-WTI), nel quale lo Usd continua a mantenere il proprio dominio. A ciò si deve aggiungere che la valuta locale dell’Arabia Saudita, il riyal, è ancorata al dollaro statunitense e che Riad esporta l’80% del petrolio in dollari. Eventuali accordi con la Cina potrebbero finanche danneggiare l’economia saudita con i cambi valutari yuan-dollaro, specialmente in una fase nella quale il prezzo del petrolio non sia elevato.
L’economia cinese è da sempre sotto stretto controllo da parte del governo, il quale prevede forti limitazioni e vincoli per gli investimenti all’estero. L’apertura verso l’esterno, con l’ingresso della Cina nel WTO, ha dato una speranza alle imprese cinesi di investire in autonomia i propri capitali di risparmio, grazie alla liberalizzazione degli investimenti all’estero (ipotesi prospettata dal mondo occidentale). Speranza presto svanita a seguito della decisione del governo di Pechino di avere un forte controllo sul risparmio interno cinese, il quale sarebbe stato investito mediante operazioni di “esportazione” del modello cinese nel mondo: attraverso la Belt and road initiative e la creazione di un mercato dei future di petrolio. Mentre la prima risente della volubilità geopolitica, la seconda corrisponde ad un reale interesse interno del paese: la Cina è l’importatore principale di oil & gas, si sta facendo strada nella catena di produzione per il refining della materia prima ed è anche uno dei principali attori presenti in tutta la catena produttiva dell’energia rinnovabile. L’utilizzo del risparmio interno non sarebbe speculativo e, soprattutto, sarebbe a vantaggio del paese e non a beneficio di altri.
Il future in yuan, il cd. petroyuan, offrirebbe alla Cina una posizione in grado di determinare i prezzi del petrolio, dando al mercato energetico una maggiore trasparenza ed efficienza. Di conseguenza lo strumento finanziario petroyuan potrebbe diventare un’espressione pratica del mercato libero in Cina, laddove il libero mercato è solamente formale. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, lo scenario di possibili conclusioni sul tema è più sfumato di quanto ci si possa aspettare. I regimi sanzionatori comminati contro la Russia mettono in luce quanto la leadership statunitense, e quella della sua valuta, siano ancora ben salde sul piano internazionale, cosa che spinge a chiedersi se la diversificazione delle valute estere (alias “de-dollarizzazione”) possa essere una soluzione ad una maggior indipendenza economico-internazionale o meno. Anche nella geopolitica energetica, molte sono le incognite circa il ruolo che la Russia avrà nel commercio energetico e su quanto potere avranno tutti gli altri membri dell’Opec come l’Arabia Saudita.
Da ultimo, non perché rivesta una minore importanza, occorre interrogarsi su quale sarà il ruolo geopolitico della Cina nel mondo che verrà, considerando che, per paradosso e con note amare, dal conflitto russo-ucraino il vero vincitore potrebbe essere proprio il Dragone rosso.
Luisa Bucci